Difficile scavare nelle origini storiche dei segni scelti nel corso della storia come indelebili caratterizzazioni del genere umano. Il ritrovamento della mummia Otzi nel settembre del 1991 sulle Alpi Venoste conferma la profondità di quest’ancestrale tradizione. Otzi è infatti la più antica mummia mai ritrovata, risalente a circa 5000 anni fa, e presenta diversi tatuaggi che gli storici riportano come pratiche terapeutiche dell’epoca, dando inoltre un ruolo ai molteplici utensili appartenenti alla medesima epoca e ritrovati da diversi storici. Se l’origine di una delle prime arti mai conosciute non è dunque da ricondurre ai popoli polinesiani, non possiamo dire altrettanto del nome attribuito. “Tau-tau” è la parola onomatopeica con la quale le popolazioni di Tahiti chiamavano il ticchetìo del legno sull’ago quando, nel 1769, James Cook descrisse questa particolare usanza degli indigeni. La trascrizione effettuata dal capitano inglese “Tattow” divenne ben presto l’ancora utilizzato “Tattoo”. In queste popolazioni, così come in tutta l’Oceania, il tatuaggio rappresenta l’appartenenza a una determinata tribù, nonché un importante passaggio nella vita dell’individuo dall’età dell’adolescenza all’età adulta. La ritualità è dunque sicuramente uno dei fili conduttori che si riscontra nella storia e nelle origini del tatuaggio come elemento culturale e simbolo di appartenenza. La stessa ritualità si riscontra nelle origini del tatuaggio in Egitto o presso i popoli celtici che erano soliti decorare il proprio corpo con disegni di animali raffiguranti le divinità dell’epoca. Diametralmente opposta la visione cristiana e musulmana del tatuaggio in tempi antichi. Per entrambe le religioni il corpo è da considerare come un dono sacro da non deturpare. Tanto l’imperatore Costantino quanto gli scritti di Maometto tendono a scoraggiare o impedire l’usanza del tatuaggio. Si deve infatti al mondo arabo l’usanza dei tatuaggi delebili grazie all’henna, pigmento ricavato dalle piante. Dall’epoca degli antichi romani ritroviamo invece il tatuaggio come simbolo per marchiare i criminali. Questa consuetudine è ritrovata anche in Giappone, culla di una fortissima tradizione di tatuaggi, nata ed evolutasi come simbolo di ribellione o appartenenza mafiosa. La Yakuza giapponese ha infatti adottato in tempi moderni la pratica di disegnare enormi tatuaggi che richiamassero i kimoni dei ceti più abbienti, che non potevano essere indossati dalle classi sociali ai margini della società. Il tatuaggio come simbolo di minoranza permane per gran parte del ‘900 nella maggior parte del mondo civilizzato. Il tatuaggio viene infatti utilizzato come simbolo d’iniziazione nelle mafie italiane, così come dal movimento punk e dai bikers degli anni ’70. La cultura del tatuaggio come simbolo distintivo sembra invece ad oggi aver perso gran parte del suo fascino, così come gli elementi mistici e rituali, lasciando spazio al semplice gusto estetico. Il tatuaggio sembra oggi ricoprire le vesti dell’autodeterminazione, del linguaggio e della comunicazione del corpo, lasciando da parte i significati culturali e facendo largo alle mode.
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